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Fede Galizia (Milan 1578 - 1630)

(Milano?1578 – 1630)

Alzata con pere e pesche

Olio su tavola, 28,5 x 39,5 cm

  • PROVENIENZA
  • BIBLIOGRAFIA
  • MOSTRE
  • DESCRIZIONE

BIBLIOGRAFIA


F. M. Ferro, Il lume interiore di Fede Galizia: riflessioni in margine ad una nuova natura morta, due tavolette poco note e ad un’altra inedita, “Valori Tattili”, 10/11 (2017-2018), pp. 75 – 84.

DESCRIZIONE


In una coppa metallica, posata su un piano di legno, sono disposte delle pere e delle pesche. È una natura morta povera: le pere sono piccole e stente, le pesche misere e marezzate. Frutti provenienti dalle vigne, le pesche coltivate tra i filari e buone per dissetarsi durante i lavori della vendemmia, gustose per il lieve retrogusto amarognolo. Possiamo immaginarci Madonna Fede, perché alla Galizia corre subito il pensiero, ricevere questi frutti da un canestro o da un grembiule annodato, e disporli, con la sua abituale devozione al naturale, nell’ombra aurata del suo studio, per dipingerli e salvarne l’effimera selvatica bellezza e coglierne tutto il fascino della vanità del mondo. Sodale di Panfilo Nuvolone e attenta in gioventù alla lenticolare maestria di Figino e all’estrosa fantasia di Arcimboldo, Fede è poi certo stregata dalla Canestra di Caravaggio acquisita dal cardinal Federico Borromeo per l’Ambrosiana. Siamo nel primo decennio del Seicento, e spetta alla sensibilità femminile di Fede aprire ad uno sguardo insieme di estremo realismo e di astrazione metafisica che sarà proprio dei grandi maestri del genere, da Chardin a Cezanne a Morandi. Di quest’ottica esemplare e d’inestinguibile meraviglia, i nostri frutti che sembrano provenire da un orto di manzoniana memoria, colti si direbbe tra “rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini” sono una testimonianza di rara maestria e qualità pittorica, nota di disadorna e agra poesia, dolce espressione della bellezza di Lombardia.
                                                                                                        
Filippo Maria Ferro